BIO
Altre Storie
SENSI DI POLPA
Come la stragrande maggioranza dei miei colleghi umani a cui non fa difetto né l’appetito né la scelta di come e quanto satollarsi, ho i miei acciacchi da benessere. Nonostante una giovinezza sportiva e la mia passione per le passeggiate, sono fisiologicamente vocato alla pinguedine, alla rotondità delle forme (c’è forse in natura qualcosa di dritto e piatto?). Il rapimento sibaritico è sindrome che affligge la maggior parte di noi, figli illusi di un dopoguerra futile e fatuo, eredi di quel “boom” economico che non avevamo chiesto e di cui – col senno di poi – avremmo volentieri fatto a meno. Alla mia/nostra generazione hanno tolto la campagna e il sorriso, hanno tappato la bocca a colpi di lattine e scatolette. Insomma, mangiamo (male e troppo) per dimenticare (presto e bene) un passato che ci hanno dipinto come scomodo e vergognoso. Se vi capita di andare a trovare a casa un cinquantenne paffuto che scrive di cibo, approfittate di una visitina alla toilette per sbirciare nell’armadietto dei medicinali: antiacidi, alka-seltzer, maalox, ricostituenti epatici, saccarina, aspartame, diuretici, tranquillanti, sonniferi e creme antiemorroidarie. I segni della durezza della sperimentazione sul campo ci sono tutti. Rari i preservativi. Non che i falsi-magri si astengano dalle attività fornicatorie, ma, passato il mezzo secolo di vita, quando devono decidere tra un’oca al forno e una donna cruda, applicano il principio del “vantaggio edonistico”, quello che la società dei consumi difende a spada tratta: l’uomo è felice solo quando ottiene il massimo vantaggio col minimo sforzo. E con le donne, talvolta, lo sforzo è sovrumano. Ebbene si, difendo a spada tratta il mio diritto di pensare alla copula solo dopo la crapula. È umano che dopo decenni di tavole imbandite il colesterolo reclami attenzione, la glicemia suggerisca cautela e l’acido urico faccia di tutto per farsi notare. Che faccio? Adotto qualche fastidiosa cautela, mi metto in sesto, perdo quella decina di chili di troppo e ricomincio daccapo?
Un giorno, all’alba di questo millennio, il medico mi persuase a pulirmi dagli stravizi per rifarmi il corpo schietto e la coscienza pulita. E mi suggerì di abbandonarmi alla voluttà dell’acqua, anzi delle acque: purgative, lassative, digestive, diure¬tiche, emetiche, stomatiche. Fu così che prenotai una settimana di cure idropinico-pisciatorie alle Terme, che sono i luoghi dove si umiliano gli obesi, quelli che nella vita si sono fatti largo – pardon, larghi – per aver indugiato troppo ai piaceri della tavola e del vino e dove cercano riparo i gottosi, a cui la troppa carne è finita acida nel pollice del pie¬de… (si sente il sacro fuoco della penitenza vero?).
Un mesto santuario puritano e sfarzoso. Saloni e porticati di marmo lucido come obitori, in cui vagavano drappelli di zoombies aggrappati a bicchieri d’acqua purgativa. Al centro un tempietto neoclassico, circoscritto da banconi in marmo su cui venivano esposti boccali colmi di acque calde e fredde, salmastre e aspre, spesso puzzolenti e brutte già a vedersi. Inutile chiedere correzioni con grappa, anice o latte. Solo acqua, santa, miracolosa, ferruginosa, solforosa, disgustosa. Acqua e nient’altro. Bevuta da tutti con rassegnata malinconia a piccoli sorsi schifiltosi. Fronti aggrottate da rughe di afflizione, cuori appesantiti da angosce esistenziali, vitalità e virilità annacquate dalla mestizia dell’ora.
Quest’acqua – che peraltro trovavo in bottiglia anche al negozio – “lava gli intestini e disincrosta fegato e reni meglio del viakal” disse il mio medico. “Vedrai caro amico (?), l’atmosfera delle Terme ti toglierà qualche chilo e un sacco di acciacchi” Salvo un po’ di gastrite professionale, non ne avevo poi molti di disturbi ma mi misi in coda anch’io. Andai in quelle grotte “sudatorie” dove la roccia esala calori infernali e i dannati stanno immobili ad ammirare lo zampillio del sudore dalle proprie membra. Li fui certo che tutti provavano le mie identiche allucinazioni da delirio d’inedia: taglieri di speck con cetriolini, zuppiere colme di rigatoni all’amatriciana, quaglie allo spiedo, brasati al barolo, cacciucchi alla livornese, fritture di paranza, beignets allo zabaione, marroni canditi… E mi sforzavo di pensare a quanta rovina avevano fatto su di me i Rabosi del Piave e i Prosecchi con cui son stato cresciuto, gli Champagne delle feste, i distillati del dopotavola, le grappe di montagna, i cock¬tails sulle spiagge dei Tropici. Ecco – mi dicevo guardando la doppia pancia di un mastodontico industriale tedesco – come le birre nordiche gli hanno gonfiato il ventre e tume¬fatto il torace. Ero circondato e tormentato da gente così grassa che sulla carta d’identità aveva tre numeri civici, persone così pingui e adipose che per mettersi la sciarpa usavano il boomerang. E tutti trangugiavano quell’acqua come se uscisse dalla fontana della giovinezza per ridare le forme e la pelle dei ven¬t’anni.
Il secondo giorno fui sconfitto dai ventri obesi e dai culi vacil¬lanti. Mi sembrava che tut¬to il mio corpo, muscoli, nervi e il mio mediamente proporzionato cor¬redo adiposo, mi pesasse addosso come una slavina. E ne ebbi ribrezzo. Davanti allo specchio in camera, pinzandomi le maniglie dell’amore, realizzai una nuova certezza. Io sono Grasso, non grasso! Non ho dentro come “loro” un uomo magro (talvolta due) che fa segnali disperati per essere liberato.
Quegli esseri malinconici pa¬gavano lo scotto di avere mangiato male, disordinatamen¬te; non erano mai stati buongustai, ma ghiottoni ed ingordi… ed erano li perché non avevano mai bevuto nulla di salutare, mai mangiato con criterio… Il massimo sforzo per loro era quello di alzarsi dal sedile di un SUV, trasferire le chiappe sulla sedia del ristorante, per riposarsi subito dopo in poltrona in attesa di andare a letto… Gente che aveva vissuto negandosi i doni naturali dell’aria, della cucina e del piacere. Pensavo: “Se vengono a fare queste risciacqua¬ture è perché hanno bisogno di sentirsi malati, sono preda di carenze non solo alimentari ma anche affettive. Io non ho mai ingurgitato alcunchè, non mi sono mai rimpinzato sen¬za criterio. Sarò anche sovrappeso di dieci, forse quindici chili ma la mia vita è tutt’altro che sedentaria… Quelle son pance da mangiatori di triple porzioni, non da esseri che assaporano con curiosa saggezza.”
Il terzo giorno ebbi l’illuminazione. Le Terme sono posti per gente che non mangia mai a stomaco vuoto. Quell’acqua benedetta e salutare potevo trovarla al supermarket sotto casa o in un autogrill. Quella stessa acqua mi sarebbe piaciuta e mi avrebbe giovato molto di più tra i sorrisi di quelli che – ricambiati – mi vogliono bene, lontano da quel luogo malinconico e tragico, traboccante di umanità frustrata. Feci fagotto di tutte le mie poche masserizie, pagai l’intera settimana di soggiorno-e-cure e dopo due ore di strada approdai, inatteso e giusto per cena, al cascinale di amici sui Castelli Romani. Capirono al volo di essere in presenza di un uomo sconvolto da un’esperienza terribile e smisurata. Aggiunsero una sedia a un lato del tavolo e scoperchiarono sotto al mio naso un coccio ancora bollente. Brasato di gaffo (che è la guancia del vitello) con puré di fave e cicoria. L’avevano cotto nel forno in pietra, a porta chiusa per quattro ore. Parlai solo dopo il secondo piatto.