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MAGO MERLOT

Mio nonno era un uomo giusto. È’ morto a 89 anni nel 1978 senza aver mai conosciuto la fatica del lavoro. Aveva un occhio solo e una visione dell’esistenza tutta personale. Non fu una vita confortevole la sua ma non si era mai piegato all’umiliazione di un lavoro, non aveva mai perso la dignità davanti ad un “sissignore”. Neanche in guerra, quella del 15/18 ovviamente. L’unica volta che fu “comandato” a far la guardia a una polveriera, vicino a Pola, non seppe resistere alla tentazione di fumare. Più che il posto, perse la polveriera.
Mio nonno era un uomo giusto. Tra le due guerre svolse onorevolmente l’attività di musicista indipendente riscuotendo ampi successi di pubblico e di osti da Pola a Parenzo e una volta su fino a Zagabria. In pratica per non stare a casa, il santuomo aveva imparato a suonare una mezza dozzina di strumenti a fiato con cui allietava i festeggiamenti dei matrimoni che allora duravano 4 e anche 5 giorni. Così ogni mercoledì partiva alla buonora col barroccio assicurato a un mulo e la sera, raggiunto il luogo del matrimonio, si ritrovava con gli altri strumentisti per un’intera nottata di prove. Dalla qualità delle botti e delle damigiane che i “maestri” provavano, mio nonno arguiva lo stile del matrimonio e la difficoltà del suo impegno. Malvasia annacquata? Segno che gli invitati erano tanti, in maggioranza donne, poco inclini agli stravizi: lavoretto da poco. Terrano forte e aspro? Il vino giusto per appetiti gagliardi, propri di contadini e operai che avrebbero spento con quel vino quintali di lasagne, carni alla brace, polente, e prosciutti, reclamando di ballare e far baldoria fino allo sfinimento: un lavoro altamente invalidante anche per i musicisti. Per quasi cinque giorni le labbra di mio nonno non riposavano un istante: zampogne e bicchieri, flauti e caraffe, ottavini e scodelle. Suonava e beveva con un’abnegazione a dir poco stupefacente, fino al lunedì sera quando ubriaco fradicio per essersi bevuto l’intero onorario artistico, veniva caricato di peso sul carretto e il mulo provvedeva a riportarlo, sano e perso, a casa. Gli restava solo un giorno per recuperare le forze e poi via di nuovo per un’altra estenuante performance… una vitaccia!
Mio nonno era un uomo giusto. Conosceva un sacco di cose, sapeva tutto del mondo e degli uomini. Nel ’48 fece di mestiere il profugo Istriano in Italia. Un precursore. Ma non solo per motivi ideologici. Aveva sentito paventare una possibile statalizzazione dei vigneti e delle cantine in Jugoslavia. Ad un certo punto arrivò a non dormire la notte al solo pensiero del razionamento del vino e della grappa. Furono i mesi più terribili della sua esistenza.
Con nonno ho trascorso i primi anni della mia vita. Camminavo appena quando feci la prima esperienza di stupefacenti inalando l’aria dell’Osteria della Veronica a Mestre dove fui rinvenuto sporco di vino dalla Maria (legittima consorte di nonno), seduto, silenzioso e attonito tra due damigiane, in un angolo, mentre 20 pensionati giocavano a carte fumando trinciato forte e sottolineando ogni calata con le più atroci bestemmie che si possano immaginare. Risale a quel periodo il mio giovanile interesse per il formaggio di cui mio nonno, santuomo, aveva una conoscenza enciclopedica. Mi raccontava che all’età di 6 o 7 anni, aiutava il padre a pascolare le pecore e le capre. Tutte le mattine, in estate, aveva il compito di mescolare il latte per un’ora e mezzo con un rametto di fico. Lui me la vendeva come una magia, grazie alla quale il latte si trasformava in formaggio. Per molti anni l’albero del fico fu per me l’albero delle bacchette magiche, e mio nonno, uomo giusto, una specie di Mago Merlino, anzi, Mago Merlot.
Mio nonno era un uomo giusto! Amava l’ordine e classificava tutto. Un giorno fu ospite d’onore ad un’assemblea di quartiere di Alcolisti Anomali all’osteria della Tettona al Villaggio San Marco a Mestre. Era un momento di pausa dei lavori, un coffee-break anzi un wine-break. Per rifarsi la bocca dalle massacranti sequenze di bottiglioni, fu messo in tavola un piatto di formaggio-grana tagliato da una settimana e una ruota di formagella giallognola con la sua bella striscia di carta pergamena attorno perché non si sedesse. Avrò avuto si o no 6 anni e me ne stavo seduto su una cassa di bottiglioni, incantato dalla copertina di una Domenica del Corriere che aveva raggiunto la maggiore età sul tavolino di Sandro il barbiere. Fu lì che ebbi la mia prima lezione sulla classificazione dei formaggi. Noi oggi ci dilunghiamo in distinzioni merceologiche tra formaggi a pasta cotta, semicotta e cruda oppure tra formaggi a crosta fiorita e a crosta lavata, semiduri o a pasta molle, a maturazione proteolitica o propionica e via enumerando. Ma secondo quel giust’uomo di mio nonno, esistevano solo due specie di formaggi: quello “da mangiare” e quello “da grattare”… Quello “da mangiare” poteva poi essere distinto in “formaggio da polenta” e “formaggio da pane” a seconda della durezza. I “formaggi da grattare” si potevano classificare in “duri da minestra” come il Grana, e “asciutti da ripieno” categoria a cui appartenevano tutti gli scarti di formaggi originariamente “da mangiare” e serenamente invecchiati in qualche cassetto (foss’anche quello dei pettini!). Destinazione prediletta di questi reperti: i ripieni per l’oca, l’anatra e il cappone.
Fu allora che appresi anche che le “ricotte” non erano formaggi ma il frutto della ricottura degli “scarti” del formaggio. Questo parallelo con l’immondizia fece si che non ne mangiassi fino a quando non vidi in una latteria che gli “scarti” altro non erano che il siero residuo dalla cagliatura del formaggio.
La cosa che mi diede lungamente da pensare, riguardava un’ulteriore divisione in due categorie che sfuggivano alla mia comprensione. La prima era quella del “formaggio dei poveri”, nome che si dava a certi formaggi magri a pasta molto salata, sul tipo del Feta greco e del Morlacco del Grappa. La loro sapidità prometteva grandi scorpacciate di polenta con poco formaggio, al punto che un’intera famiglia poteva consumare un pajolo di polenta sfiorando un unico pezzo di formaggio per carpirne un po’ di profumo e di gusto. Allora non avevo ben chiaro il concetto di “classe sociale” ma per tutta la giovinezza vidi nel formaggio un simbolo di ricchezza e opulenza vietato a chi si doveva accontentare solo dell’odore. Erano i primi anni ’60, quelli del boom economico: la lavatrice a rate, il frigorifero, il televisore con la copertina ricamata, Scelba… Le tute blu in piazza a urlare contro i padroni e addosso alla polizia che sparava. Ci fu un momento in cui pensai che gli operai e i braccianti, facessero tutto ‘sto casino per reclamare il loro bravo pezzo di Asiago Mezzano!
Ma il mistero più grande restò, fino ai 12-13 anni, quello riguardante la seconda categoria casearia extra, la più pregiata, che riguardava tanto i formaggi da “mangiare” quanto quelli da “grattare”. La classificazione ufficiale operata da mio nonno era “formaggio per andar in mona”, riferita ovviamente alla piccantezza di certi pecorini prodotti con caglio di capretto e capaci di risvegliare gli ardori sessuali maschili. E io che ne sapevo? Per un bambino veneziano l’espressione “va in mona” non era – e non è – una parolaccia, tantomeno un insulto. Nel linguaggio casalingo la frase viene usata più o meno come fanno i toscani col termine “bischero”. Ma quando si dice che qualcosa o qualcuno è “andato in mona” s’intende che è irrimediabilmente malato, distrutto o morto. Che senso aveva riconoscere grande pregio a un formaggio probabilmente velenoso o tossico, forse brutto anche a vedersi, che m’immaginavo con un puzzo esecrabile di marcio? La buonanima capì il mio smarrimento e amabilmente, glissando sugli aspetti più scabrosi dell’andare-in-mona mi disse: “I formaggi piccanti non piacciono ai bambini perché l’unico gusto che li rende felici è quello dolce. Quando imparano a sopportare le amarezze, i dolori e i pericoli sono pronti ad apprezzare anche l’amaro, l’acido e il piccante. Gli uomini possono mangiare solo ciò che capiscono e di cui non hanno paura”. Il primo a dirmi che “l’uomo è ciò che mangia” è stato uno che non aveva mai letto Feuerbach e forse non aveva mai sentito nemmeno nominare Platone.