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IL PANE DEL BIMBO-PASTORE

La cultura contadina stigmatizza da sempre l’indegnità sociale di chi butta il pane. Lo scoprii all’età di sei anni, quando il nonno raccolse dall’erba bagnata un panino che avevo gettato a terra per uno di quelle insolenze infantili a cui uno scapaccione pone il più efficace rimedio. Non raccolse la mortadella sciorinata sul prato ma solo il pane. Lo accarezzò per toglierne la terra e fissandomi con una severità che non gli conoscevo, lo portò verso le labbra con le due mani unite. Un bacio leggero e se lo infilò nella tasca del cappotto dopo averlo fasciato col fazzoletto. Il mio imbarazzo non veniva dalla colpa ma da quel gesto, adeguato più a un barbone che ad un uomo di cui avevo stima e ammirazione. Il malessere mi fece volgere lo sguardo per assicurarmi che nessuno avesse notato la sua sciatteria . Mai come allora la nebbia del tardo autunno mi sembrò più propizia. Anche nonno si guardò in giro, poi senza dir nulla, mi riprese per mano e riprendemmo il cammino in silenzio, ognuno certo dell’imbarazzo dell’altro per un gesto fuor di luogo. A cinque anni la memoria è irrequieta, frenetica, e un’ora dopo già altre scoperte e distrazioni avevano messo in disparte l’episodio. Ebbi di che ricordarmene a casa quando sentii il buon vecchio biasimare scoraggiato mia madre per non avermi “insegnato la creanza di rispettare il pane, che non si butta e non si sporca e che se non può essere mangiato o usato in cucina deve essere dato agli animali”. Con gli occhi lucidi e il viso in fiamme corsi ad abbracciare le gambe di mamma: – Nonno, mettiamolo sul balcone per gli uccellini! Più tardi il telegiornale mandò in onda un servizio sul (se ben ricordo) Congo che stava pagando con la fame il prezzo di un’indipendenza avversata dal mondo e osteggiata dai signori dei diamanti. Volti di donne disperate e occhi coetanei – cui non era data occasione nemmeno di sfiorare un pezzo di pane – mi urlarono per anni il loro muto rimprovero. Da quel lontano inverno, il gesto di baciare il pane caduto a terra o anche solo di aver rispetto dei frammenti rimasti sulla tavola mi ha sempre colpito come uno schiaffo nel sonno, come un fulmine che inonda di luce morale questa nostra epoca villana e insolente…
Non ho molte notizie sulle origini della famiglia di mio nonno. Credo fossero piccoli artigiani tessili originari della Pedemontana Trevigiana inviati in Istria dalla Serenissima alla fine del ‘700. Col lavoro e qualche commercio, il nonno di mio nonno riuscì anche a mettere insieme alcune piccole proprietà a pochi chilometri da Pola. Più o meno alla metà dell’800 la famiglia subì qualche avversità, così che nonno – classe 1889 – si ritrovò da bambino a fare il pastore col padre. Passato bene o male fra due guerre (o forse tre), alla fine dell’ultima ritenne dignitoso fare il profugo, non senza vedersi togliere, col torto dei perdenti, quel poco che gli era rimasto come lascito di famiglia. L’abbandono della casa dove abitava con moglie e tre figlie fu l’ultimo schiaffo di un’eredità accettata senza beneficio d’inventario, già erosa una settantina d’anni prima quando, assieme alle poche terre da pascolo, se n’era andata la casa di famiglia sulla piazza centrale del paese. Nonno si ricordava che durante la sua fanciullezza il pianterreno dello stabile era occupato da un forno gestito da uno zio al quale – fino agli anni ‘30 – i contadini portavano i sacchi di farina in cambio dello stesso peso, a rate, in pane. Dove diavolo stava il guadagno, mi chiedevo? Fu più o meno allora che si formò in me la convinzione che i panettieri fossero tutti dei sant’uomini, dei benefattori dell’umanità che lavoravano in orari impossibili senza guadagnare un solo centesimo dalla loro fatica. Sicuramente erano più disinteressati del prete che in chiesa guardava in tralice chi non metteva l’obolo nella sacca del sacrestano. E anche più mistici di un monaco di clausura dato che non parlavano con nessuno, di notte non dormivano e si negavano ogni giorno la luce del sole. Il padre di un mio compagno di seconda elementare faceva il panettiere. Senza averlo mai visto me lo immaginavo come un tipo emaciato, smunto, muto, con le braccia e i capelli sempre infarinati, le ciabatte ai piedi e immancabilmente vestito in penitenziale bianco. Per farla breve, consideravo il mio compagno con la stessa infinita compassione con cui si guarda un orfanello. Poi venni a sapere che il padre di Franco (ché così si chiamava il mio amichetto simil-orfano) aveva non uno ma tre panifici e alle sue dipendenze lavoravano quasi trenta operai. E Franco prese subito dei contorni diversi. In capo a qualche giorno, alla commiserazione era subentrato un sottile senso di disistima, come se le colpe del padre – sfruttatore di decine di uomini silenziosi, macilenti, tolti agli affetti famigliari e schiavizzati a lavorare di notte senza salario – ricadessero sul povero Franco. Sulla scorta dell’insegnamento e dell’esempio del buon vecchio, la mia idea sacrale del pane già si sublimava nel ruolo sacerdotale del fornaio e diventava sacramento nell’alchimia della lievitazione.
Per qualche strana consuetudine o obbligo del parente-fornaio, al papà di mio nonno erano dovute a vita tre “misure” di pane alla settimana. Credo (ma non ne sono certo) che la misura fosse la pagnotta contadina di due chili di peso. Incaricato del prelievo settimanale era proprio il bambino-pastore che sarebbe diventato tra le due guerre padre di mia Madre. Con la bella stagione lui, il babbo, venti pecore e dieci capre dormivano tutti insieme nell’ovile in montagna, a una giornata di cammino da casa. Dentro l’ovile circolare in pietra a secco, c’erano delle sacche di pelle sospese a stecchi incastrati nelle fessure. Sopra il pagliericcio di nonno c’era quella del pane e ogni settimana il più giovane dei due doveva andare a “far pane” al forno in paese. Aveva si e no otto anni e quella settimanale “trasferta” rappresentava l’unico diversivo alla monotonia del pascolo con gli animali. Lo zio, diceva nonno, era un tipo strano, magro, con dei grandi baffi alla tartara, piegati dal peso di un gobbo naso madornale. Il bambino-pastore camminava per otto, dieci ore attraverso campagne, colline e boscaglie. Nella sacca a tracolla portava tre o quattro forme di pecorino fresco, la produzione della settimana, che lasciava non so dove lungo la strada in conto-vendita. Era estate e gli alberi offrivano fichi, albicocche, pesche che unite a un pezzo di pane secco e a una crosta ripulita di formaggio gli facevano da viatico per il tragitto. Ogni tanto un pozzo d’acqua per bere e per rinfrescare le gambe sferzate dai rovi e scorticate dalla terra. Arrivava al paese che era già notte – che a quel tempo cominciava alle otto di sera – e si ricavava un pagliericcio tra i sacchi di farina sotto gli archi del magazzino. Alle quattro del mattino – mi raccontava – l’odore aspro dei lieviti che avevano lavorato tutta la notte, si tramutava nel profumo dolce e fragrante del pane appena sfornato. Qualche donna di casa gli porgeva una ciotola di latte appena munto. Latte bianco di vacca, allettante e profumato, bevanda di festa che spezzava il gusto di pecora dell’ovile. La tazza – sempre la stessa in alluminio, con un anello per sospenderla al chiodo sopra la fontana – pareva fattapposta per ammollarci dentro una o due manciate di pane secco, pescate dal mucchio degli avanzi destinati agli animali. Seduto su uno sgabello aspettava che il tutto si trasformasse in una poltiglia tiepida e collosa, da sorbire a cucchiaiate guardando lo zio baffuto che smuoveva la prima infornata del giorno. Non un rumore, non una voce. A tratti solo il gemito del portello del forno, il crepitare del fuoco e qualche strofinio di legni. Quando la pala levava le prime pagnotte, lo zio faceva un cenno al piccolo che avvicinava una tavola d’abete alla bocca del forno. Le prime tre pagnotte finivano su quell’asse a spegnersi per il tempo necessario a nonno per lavarsi e infilare le scarpe. Avvolte in tela bianca e ancora fumanti, le tre “misure” di pane finivano nella sacca per prendere la strada verso l’ovile. Credo di averla sentita raccontare almeno una dozzina di volte questa storia. Ogni volta uguale, perfino nei particolari, immutabili. Quella settimanale missione per garantire il pane e la sopravvivenza delle due generazioni all’ovile aveva ancora – nel vissuto di nonno, dopo ottant’anni – gli straordinari contorni di un mandato di enorme responsabilità e peso sociale.