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23 CROMOSOMI SENZA RISPOSTA
Sono un figlio della diaspora istriana. Mia Madre, ultima di quattro figlie, se ne andò da Pola nel 1947 in nave i 350mila profughi che decisero di restare italiani portandosi dietro qualche involto di stracci e una sconfinata tristezza. Farsi strappare da casa a 16 anni può anche avere il fascino dell’avventura ma Lei aveva la piena consapevolezza che quel viaggio sarebbe stato definitivo. Mia nonna era già “scappata” da Pola dopo una serie di avventure rocambolesche che andavano dall’accusa di collaborazionismo agli antifascisti, al carcere, dal “contrabbando” di frutta e verdura, al bombardamento del treno sul quale viaggiava clandestina. Un matrimonio non proprio felice – com’erano e sono la maggioranza – quello di mia nonna. Un uomo geloso all’inverosimile, severo, per nulla tollerante ma talmente creativo da studiare ogni lecito sistema per non lavorare. Una storia piccola, comune a tanta povera gente che immiseriva nelle campagne del dopoguerra in tutta Italia, in cui si soffriva e si bestemmiava come durante e prima di quella guerra e di tutte le altre, passate e incombenti.
Quando nacqui, la guerra, i campi profughi e le foibe erano passato prossimo confinato ai recessi più intimi della memoria di ognuno di quei 350mila, ma a Gallesano, a Pola, a Fiume e in tutta la Dalmazia era in atto la cancellazione di ogni traccia di Italianità, cambiavano i nomi dei paesi, cadevano insegne e monumenti, capitolava la lingua dei padri pressata da quella dei nuovi padroni. C’era in mio Padre, uomo di senno, il bisogno di capire – credo – il significato che mia Madre aveva dato a quel repentino e definitivo addio al suo mondo e alla sua gioventù. Ed era orgoglioso Papà – credo – di portare sua Moglie a Gallesano, di darle il segno di condividere con Lei una tristezza mai espressa e mai sopita. Io ero con loro: figlio del frainteso “miracolo economico” che riscattava la miseria di un’Italietta vergognosa delle sue radici contadine. Mi stupirà negli anni a venire il commosso distacco con cui Lei rivedeva il suo paese dopo tanti anni, la pudica felicità nell’incontrare amici, parenti, vicini di casa che avevano scelto di non fare “il viaggio”. E mio Padre, uomo giusto e di sani principi, osservava e – sono certo – capiva perché sua Moglie, mia Madre, non desse a vedere di commuoversi a risalire le scale della vecchia casa, a camminare per le strade che l’avevano vista bambina, a toccare la vera del pozzo dove aveva attinto l’acqua; perché una patria sottratta annulla gli affetti, cancella i ricordi e sospende i giudizi.
Mia Madre rimase vedova dopo nemmeno 20 anni di matrimonio appena rientrata da una di quelle tante visite a Gallesano. L’ultimo regalo che mi fece Papà prima di andarsene per sempre fu un vassoio di cevapcici, per condividere con me, rimasto a casa, almeno il gusto di quella terra tanto amata. Fu l’ultimo pasto che feci con lui… e fu l’ultima volta che li mangiai
Non più di persone sono fatti i miei ricordi dell’Istria di quegli anni ma di profumi, di cucine, di atmosfere e di luoghi legati al cibo. A cominciare dalla orehnjaca (dolce di noci) che era il pezzo forte di una confusa “zia” di Zagabria. Dovunque, in ogni casa, in ogni konoba e in ogni gostiona, la rassicurante fragranza del prosciutto crudo istriano o dalmata, probabilmente tra i migliori del mondo con quello sardo di Desulo, sicuramente superiore agli omologati San Daniele e Parma. Ripescando a caso nella memoria dopo 30 anni, ritrovo un sorprendente catino (si, proprio quello da usare per lavarsi!) colmo di cipolle ripiene e messo in tavola dall’obeso patron di una gostiona a Parenzo. Cipolle e malvasia non avevano certo qualità particolari ma si sa… la fame è il miglior condimento! Terminammo con una mezza forma di pecorino di Brazza con la “lacrima” e un piattone di palacinke con puina e cioccolata. Al momento del conto (una manciata di dinari di allora) lo sferico oste propose ed ottenne di barattare la nostra cena per quattro con la piccola calcolatrice che avevamo posato sul tavolo. Per due musicassette ci aggiunse anche un bottiglione del suo olio d’oliva incredibilmente buono.
Le foto-sensoriali di quei soggiorni vagabondi son tavoli di trattorie o osterie senza tovaglia, regno di ostesse accigliate e grasse o di cantinieri ossuti dalle fisionomie in rifacimento. E sono onestissimi piatti di jota calda o fredda, zuppe di kapuzzi con patate, singolari knjedli in brodo grasso di gallina, luganighe e raznjici su graticole improvvisate all’uscio di casa. E il mare! Scrutavamo da una konoba di Fasana l’isola di Brioni a caccia di improbabili visioni del Maresciallo Tito, mentre addentavamo scampi, mussoli e capesante annaffiate da caraffe di Teran. Promontore e Medulin ci consolavano dal terrificante caldo del giugno ’73 con grigliate di calamari e brodetti di pesce. Ed era più spesso borgogna freddissima che malvasia troppo spesso acida. Spingo più a sud col ricordo e mi lascio andare all’archeosapore di un insospettato prosciutto d’orso condiviso a una festa di matrimonio sui laghi di Plitvice. Chi fossero i miei benefattori – che fecero più festa allo sconosciuto ospite che allo sposo – non lo seppi mai ma durante il buffet nell’aia di casa rimisero la mia vettura magicamente in grado di proseguire per Spalato. Ecco il denominatore comune della Croazia e della Slovenia: la sacralità dell’ospite. Forse ho capito cosa mi trascinava fin da allora in quei luoghi. Al di la della storia tormentata, fatta oggi/ieri di guerre, fame e vendette, c’è intatto l’incanto e il fascino del mondo Ottomano allora come oggi presente nella tradizione gastronomica multietnica Istriana, Slovena e Croata. Fin da ragazzo il mondo e la cultura Araba mi hanno ammaliato (non a caso il libro che più mi ha accompagnato nei miei viaggi è stato “le Mille e una Notte”). Non parlo di religione ma di patrimonio di conoscenze. L’autorevolezza secolare dell’Islam – al quale la nostra erudizione deve sicuramente molto più di quanto ha dato – ha influenzato, esaltandolo, il concetto di ospitalità e cortesia di queste genti. Ma ancor più ha fornito un’identità alimentare talmente radicata e consapevole da sopravvivere (chissà fino a quando!) a mode e tendenze globalizzanti. Sogan, tavce, tarator sono termini Turchi, come kajmak, dolma, linci. Li ho ritrovati intatti durante i miei viaggi di ricerca nel mondo Anatolico, Armeno e Kurdo. Cento e cento piatti – maiale a parte – hanno nomi uguali, ricette sovrapponibili, tradizione omologhe. Ma a tavola c’è prima di tutto la storia: il lascito di Avari e Slavi, i Tartari, Venezia, la Mitteleuropa… tutto il passato parla con la voce della genialità alimentare di genti diverse che hanno mediato rapporti di dare e avere culturale. E sono diventati Nazione Croata. Che sia questa la terra della tolleranza, della permeabilità culturale che tutti gli uomini di buona volontà si affannano a cercare?
Làtito da anni dalla Croazia. Forse temo di scontrarmi con qualcosa che non corrisponde ai miei ricordi buoni da pensare e da mangiare. O forse ho solo il timore di trovare li ad attendermi una parte di me, della mia storia: metà del mio patrimonio genetico ancora sospeso, meccanicamente rimosso come fu per mia Madre. Qualcuno, chissà dove, mi deve ancora delle spiegazioni.