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IL COLTELLINO DI AMPELIO
Una buona parte dei miei vissuti alimentari viene da esperienze consumate nelle campagne trevigiane alla ricerca dei mitici “vini del contadino” di allora. Vini spessi, grevi, visti oggi addirittura immorali per qualità, finezza e profumi. Ampelio vendeva vino intorno a Mogliano Veneto. Non era zona – come si dice ora – “vocata” al vino ma il buon uomo aveva nel nome il destino assegnatogli dai genitori almeno sessant’anni prima: Ampelio vuole dire infatti generato della vite ed era moda agl’inizi del secolo scorso nominare i figli coi nomi propri di ideali o di modelli (ho conosciuto qualche Solidea, un Avvenire, diversi Adolfo e addirittura un anziano Antevleva che in dialetto romagnolo significa “non ti volevo”…). Bene, da Ampelio andavo con papà ogni anno verso Pasqua – in luna calante, non chiedetemi perchè – a riempire due damigiane con una sciampagna dal piacevole fondo abboccato e tuttosommato non spregevole. La parte più divertente, almeno per me, era il ritorno a Treviso, con la 600 che caracollava lungo le strade bianche di Dosson, Casier e Sant’Antonino. Si sarebbe potuto fare anche il Terraglio ch’è strada tanto ampia quanto blasonata ma dava più piacere a papà comportarsi come quando esistevano i caselli daziari che gabellavano le merci in entrata nel comune. Quindi, damigiane coperte con un plaid sul sedile posteriore e io finalmente seduto davanti a condividere la polvere della strada e il gusto di una beffa mai avvenuta ai danni di doganieri ormai estinti. Sempre da Ampelio si tornava con le nebbie di San Martino, a ridosso del mio compleanno, per i radicchi. Erano i novembri gelidi e caliginosi di cui si è persa la memoria, affollati di tabarri e irti di camini che cacciavano il fumo dentro alla nebbia. Il primo incontro col radicchio avvenne un sabato pomeriggio del ’60. Ancora non andavo a scuola ed ero invidioso dal nipote di Ampelio che mi mostrava il suo grembiule nero col fiocco azzurro. Sul lato corto dell’aia, coperto da teli neri catramati, c’era un enorme ammasso di letame arginato da traversine di legno. Una fugassa – appena fatta, tanto fumava – come quelle incartate in cartaoleata che vendeva il forno dietro casa della nonna. Ampelio salì al monte su un asse, alzò i teli con i piedi, inforcò una zolla di letame, tolse uno strato di paglia e cavò da quel primitivo forziere organico due mazzi di radicchi, grandi come damigiane. L’odore pesante dello stallatico e l’aspetto poco invitante di quegli ammassi marcescenti non deponeva certo a favore del primo incontro di un bambino col radicchio. Il buon vecchio capì al volo e mentre appoggiava a terra i mazzi si sporse a una spanna dal mio orecchio per togliermi l’inquietudine “stanno bene… a ogni bambino, quando si sveglia, la mamma toglie il pigiama e gli lava il muso… Adesso li rancuriamo sennò il tuo papà non li vuole!”. Si avviò al barco portando i tre fasci, li appoggiò al tavolone, e cominciò a rancurare ogni cespo, svestendolo delle foglie esterne così da lasciare attaccato alla coda solo un fiore sodo, sbianchito e un po’ arruffato. Me ne mise in mano cinque o sei, lui ne prese un cesto pieno e mi fece cenno di seguirlo alla fontana. Non una parola. Cominciò a lavare le sue creature nude e io facevo lo stesso sforzandomi di sopportare il gelo inesorabile dell’acqua. Papà guardava la scena con infinita tenerezza, anche lui senza un suono. Tornammo sotto il barco. “Sono pronti a partire… ma prima diamo una rancurata ai capelli così i miei bambini saranno più belli e ordinati” e Ampelio prese da una cesta un coltellino senza punta per rifinire le code e accorciarle. Tesi la mano verso il coltello, lui guardò papà che fece un discreto segno d’assenso. Aprì la sua manona di cuoio screpolata e mi ritrovai il coltello in mano. Provai a stringere la presa ma le dita erano diventate così insensibili nell’acqua che l’oggetto del desiderio finì per terra: “… perché hai le mani più adatte alla forchetta!”.